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Documento inédito aparecido en el CORRIERE DELLA SERA el 10 abril de 2007
22 gennaio: Le nostre patate sono
finite.Dagiorni circolava per le baracche la voce che un enorme deposito
sotterraneo di patate fosse nascosto da qualche parte, fuori del filo
spinato, non lontano dal campo; ora qualche pioniere ignorato deve
averlo rintracciato. (Passi, rumore di pale e di carriole al vento). Un
tratto del recinto di filo spinato è stato abbattuto a colpi di pala, e
una doppia processione di miserabili esce ed entra dalla apertura. (...)
Narratore: Ed anche
la fame stava per finire: il deposito di patate era enorme, ce n’era per
tutti… Nessuno sarebbe più morto di fame (pausa).
25 gennaio: Nessuno sarebbe più morto di fame: ma
la morte continuava a mietere. La debolezza di tutti era estrema: nel
campo nessun ammalato guariva, molti invece si ammalavano di polmonite e
di dissenteria. Non c’erano medici né medicine: i malati e gli
esauriti, che non erano in grado di muoversi, giacevano torpidi nelle
loro cuccette, paralizzati dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando
morivano. Per la prima volta la morte è entrata nella nostra camera. È
stata la volta di Somogyi: un ungherese di cinquant’anni, alto, magro e
taciturno. Era ammalato insieme di tifo e di scarlattina. Da forse
cinque giorni non parlava. Ha aperto bocca oggi, e ha detto con voce
ferma:
Somogyi:Ho una razione di pane sotto il saccone. Dividete voi tre. Io mangerò mai più.
Narratore: Non
abbiamo trovato nulla da rispondergli, ma non abbiamo toccato il pane.
Finché ha avuto coscienza è rimasto chiuso in un silenzio aspro. Ma la
sera e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il suo
silenzio è stato sciolto dal delirio.
Somogyi: Jawohl..., Jawohl..., Jawohl...
Narratore: Jawohl, il
Sì degli schiavi, la parola dell’obbedienza e della remissione. La sua
voce è sommessa, è estenuata, eppure sembra che passi le pareti del
tetto, che gridi al cielo. Seguendo un ultimo interminabile sogno di
schiavitù, Somogyi ha continuato a dire Jawohl finché ha avuto fiato:
regolare e costante come una macchina, Jawohl ad ogni tensione di
respiro, ad ogni abbassamento della povera rastrelliera delle costole.
Jawohl, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di
svegliarlo, di soffocarlo. Non ho mai capito come allora quanto sia
laboriosa la morte di un uomo. (Silenzio per qualche secondo, si sente
soltanto il Jawohl di Somogyi) Fuori adesso c’è un grande silenzio. La
pianura intorno al campo è deserta e rigida, bianca a perdita d’occhio,
mortalmente triste. Il numero dei corvi è molto aumentato e tutti sanno
perché
26 gennaio: Siamo soli, abbandonati in un universo
di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà è sparita intorno a noi
e dentro di noi. L’opera di bestializzazione intrapresa dai tedeschi
trionfanti, è stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. È uomo
chi uccide, è uomo chi commette o subisce ingiustizia: non è uomo chi ha
perso ogni ritegno, e divide il suo letto con un cadavere. Chi ha
atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di
pane, può essere innocente, ma è segnato, è condannato, è maledetto. È
più lontano dal modello dell’uomo pensante, che un sadico atroce e rozzo
pigmeo. (Silenzio, si sente adesso in primo piano il Jawohl di Somogyi.
È morente e la sua voce è un rantolo) Erano questi i nostri pensieri,
alla vigilia della libertà. Soltanto Somogyi si accaniva a confermare
alla morte la sua dedizione. (…) Misono svegliato di soprassalto:
Somogyi taceva, aveva finito. Con l’ultimo sussulto di vita si è gettato
a terra dalla cuccetta: ho udito l’urto delle ginocchia, delle anche,
delle spalle e del corpo.
27 gennaio: L’alba. Sul pavimento, l’infame tumulto
di membra stecchite, la cosa Somogyi. Nonpossiamo portarlo via. Ci sono
lavori più urgenti, non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che
dopo di aver cucinato e mangiato. I vivi sono più esigenti. I morti
possono aspettare. Ci siamo messi al lavoro come tutti i giorni. Abbiamo
preparato la zuppa, abbiamo rifatto i letti dei malati, poi ci siamo
accinti a quell’altro triste lavoro. (Rumore di stoviglie ecc. Poi si
sente un mormorio crescente, lontano e poi vicino che si muta infine in
grida di gioia e acclamazioni) I russi sono arrivati mentre Charles e io
portavamo Somogyi poco lontano. Lo abbiamo caricato su di una barella:
era spaventosamente leggero. Abbiamo rovesciato la barella sulla neve
grigia mentre sulla strada passavano le avanguardie russe a cavallo.
(...)
Narratore: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. A me dispiacque di non avere il berretto.
Primo Levi
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